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Da Jan Hus a Jan Patocka...

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                  Da Jan HUS a Jan PATOCKA

Una testimonianza di coerenza morale e intellettuale

 

Fra gli effetti prodotti dalla caduta del muro reale  di Berlino e di quello ideale  (o ideologico) che divideva Est ed Ovest del mondo c.d. civilizzato (leggere: industrializzato), va annoverata la rimozione delle censure e dei veti con cui un sistema di potere distorto, ottuso come tutte le dittature, infine violento fino all’autodemolizione, aveva condannato la parte migliore di molte nobili esistenze a restare sommersa, affidando al tempo e all’oblio il compito di disinnescarne l’implicito potere eversivo.

E’ stato così possibile, alla comunità filosofica più attenta della nostra città, portare all’attenzione del mondo della cultura la visione filosofica e la figura umana del pensatore cèco Jan Patocka, a venti anni dalla morte  provocata da un “interrogatorio” della polizia di Husak. L’iniziativa - partita dal Dipartimento di Filosofia dell’Università “Federico II”, per impulso di Domenico Jervolino - ha raccolto l’immediata adesione di quell’altro avamposto napoletano di cultura umanistica che è l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, oltre che dell’Istituto Universitario Orientale e del Suor Orsola Benincasa, che ha ospitato la parte più cospicua dei lavori nei giorni 6 e 7 giugno dell'anno appena trascorso.

 Scorrendo i numerosi interventi, abbiamo voluto privilegiare quello del belga Henri Declève, del quale ci è sembrata rilevante la precisazione fatta in via preliminare circa la diversità dello sguardo del filosofo, quando si affissi su un avvenimento o un’opera situabili in un passato più o meno definito, rispetto allo sguardo del filologo o dello storico, o di chiunque si ponga in un’ottica di pura ricostruzione scientifica. La differenza starebbe nel fatto che il filosofo “si assume il compito di analizzare la situazione”. E analizzare in senso filosofico vuol dire - secondo un’affermazione dello stesso Patocka - “tener conto delle implicazioni etiche e politiche”, e quindi del valore testimoniale che trasformerà l’analisi stessa in messaggio per la generazione a cui verrà consegnata. In questo senso al filosofo tocca ogni volta l’onere e la responsabilità di una valutazione, alla quale la sua sensibilità umana e intellettuale non può rimanere estranea, giacché “in un certo senso la sua stessa affettività è coinvolta”.

In particolare, l’opera e il modo stesso dell’esistenza di Jan Patocka appartengono per molti versi “al senso della nostra attualità”, tanto che secondo l’autore dell’intervento, “modificando leggermente il titolo di una raccolta di suoi articoli apparsa in traduzione a Milano nel 1970”, si può dire che il convegno di Napoli rappresenti il tentativo “di afferrare, insieme, Il senso dell’oggi  - e non solo in Cecoslovacchia”.

 I settant’anni in cui si dispiega l’arco temporale dell’esistenza di Patocka (1907-1977) sono segnati per il suo paese da eventi politici eccezionali.

Con la fine della prima guerra mondiale (1918) e il crollo dell’Impero Austro-Ungarico, la Cecoslovacchia si costituiva come Repubblica indipendente con a capo il presidente Masaryk, professore di filosofia all’università di Praga e studioso di Jan Hus (1370-1415) (sacerdote e teologo, che della stessa università era stato rettore cinque secoli prima, fino a che lo aveva raggiunto la scomunica del papa di Roma - si era in pieno Scisma d’Occidente - alla quale erano seguite la prigionia e la condanna al rogo da parte del Concilio di Costanza).

La travagliata parabola indipendentista del paese (1918-1938) s’interruppe con l’invasione delle armate hitleriane e la sua trasformazione, ad opera della Germania nazista, in un Protettorato di Boemia e Moravia.

Alla fine della seconda guerra mondiale, ricostituita l’unità nazionale con l’aiuto delle truppe sovietiche nel 1945, la Cecoslovacchia diventò "una Repubblica Democratica, satellite come le altre, peggiore delle altre, più staliniana e sanguinosa”, che vide succedersi “processi spettacolari ed esecuzioni in serie”.

Nel 1960, venne proclamata la Repubblica Socialista. Nel 1968, con Dubcek segretario del partito comunista, Svoboda presidente della Repubblica e Cernik capo del governo, iniziava la c.d. Primavera di Praga, sfiorita già in agosto nell’urto coi carri armati sovietici.

Il nuovo corso  fu spazzato via, e con esso le recenti libertà democratiche. Ma il ricordo della breve speranza di un socialismo dal volto umano  faceva da lievito per vecchie e nuove dissidenze, alle quali rispose la dura repressione del presidente Husak.

Molti intellettuali e artisti emigrarono. Patocka venne invitato a farlo: l’università tedesca di Magonza era pronta ad accoglierlo. Ma egli scelse di rimanere, ritenendo di non potersi sottrarre - da filosofo - al dovere di continuare ad insegnare proprio lì, dove la dissidenza lo chiamava a farlo, attraverso seminari privati ai quali non pochi professori stranieri assicuravano il legame con la cultura filosofica europea. In particolare, alla continuità di tali rapporti molto contribuirono le società olandese e francese degli “Amici di Jan Hus”, il cui nome e la cui memoria sembrano - a posteriori - proiettarsi come una lama di luce tra le tenebre di una clandestinità difficile, e tuttavia operosa.  In quella clandestinità, che non sfuggiva alla sorveglianza della polizia neostalinista di Husak, la resistenza intellettuale affidava ai semizdat  - copie dattiloscritte rigorosamente controllate e firmate dall’autore, riprodotte con lo stesso sistema da collaboratori e discepoli - la diffusione dei corsi e di opere che poi venivano pubblicati all’estero in riviste e raccolte commemorative. Come quella già menzionata, uscita in Italia nel 1970 col titolo Il senso dell’oggi.  

Nel 1973, Patocka è a Varna, in Bulgaria, al Congresso Internazionale di Filosofia per presentare “una comunicazione su I pericoli dell’orientamento della scienza verso la tecnica secondo Husserl e l’essenza della tecnica in quanto pericolo secondo Heidegger”. Il presidente sovietico gli lascia un solo minuto per parlare, con l’effetto di rafforzare in lui il senso drammatico del dovere “di affermare la libertà in modo efficace”. Lo fa in più occasioni. La più risonante e decisiva è la firma della Carta 77, su sollecitazione di Vaclav Havel - allora presidente della nuova Repubblica Cèca, intellettuale e drammaturgo egli stesso. Molti altri intellettuali rifiutano di impegnarvisi. Il documento si richiama alle libertà di opinione e di espressione e alla libera circolazione dell’informazione, diritti garantiti dagli accordi di Helsinki del 1975 e sottoscritti anche dalla Cecoslovacchia.

La reazione non si fa aspettare. In seguito ad una visita all’ambasciata olandese per un’intervista al ministro degli esteri di questo paese, Patocka viene accusato di atti sovversivi. Una serie di “interrogatori” da parte della polizia si conclude con la morte per “congestione cerebrale” il 13 marzo 1977.

Un secondo motivo della preferenza che abbiamo inteso accordare al lavoro del Prof. Declève - fra altri importanti contributi di analisi concettuale della sua opera e del suo pensiero - è l'intento che vi traspare di recuperare l'alto valore testimoniale di una scelta che Patocka, martire suo malgrado, pagò con l'estremo sacrificio. Come non pensare a un legame sottile ma persistente che attraversa i secoli e le generazioni di questo paese, per veicolare una visione platonica di bene pubblico perseguito sul filo di un accordo ineludibile tra potere e coscienza morale. A partire da quella lontana condanna al rogo che si trasforma in una lectio  di altissimo contenuto etico, fino al più recente sacrificio di Jan Patocka: entrambe le vittime avrebbero potuto sottrarsi alla minaccia incombente, ma non lo fecero. A Jan Hus fu suggerito di dire sì al Concilio, quand’anche gli avessero detto: “Tu hai un solo occhio”. Egli rispose: “Avendo la ragione di cui ora faccio uso, non potrei dirlo senza la resistenza della mia coscienza”. E di quest’imperativo di accordo tra ragione e coscienza, volle dare testimonianza in una lettera ai suoi discepoli.

Degli eventi che portarono alla morte di Jan Patocka è stato detto da alcuni che “... il coraggio di avere una coscienza è il più importante (e forse il solo) contenuto della Primavera di Praga”. Di lui stesso è stata criticata - da parte di altri intellettuali che ne lamentavano la perdita per l’evoluzione stessa della corrente fenomenologica alla quale essi tutti appartenevano - la mancanza di prudenza e un eccesso di innocenza.

Come se il filosofo, sul piano della prassi individuale, non avesse altro dovere che la salvaguardia della propria atarassia. Come se, per un intellettuale dei nostri tempi, dovesse essere facile e legittimo dimenticare quella lontana lezione di coerenza intellettuale e morale difesa fino all’inferno del rogo.

 Di Jan Patocka resta un’opera fatta di frammenti, di percorsi che s’interrompono per gli urti a cui fu esposta la sua esistenza. Ma, come afferma Henri Declève, “essi fanno scorgere l’unità di un intento e di un itinerario di pensiero... meglio di come avrebbe potuto fare la sintesi rimasta materialmente impossibile. Lo stato di quest’opera fatta a pezzi e come decostruita dalle convulsioni dell’Europa centrale, dall’ascesa del nazismo fino agli ultimi tempi dell’Unione Sovietica, ci... invita a... leggere nell’accidente e nel rischio l’avvenimento significante, il connettore intermittente del senso, la domanda rivolta all’esistenza pensante.”

Fra questi frammenti portatori di significati parziali, forse provvisori, che cercano di integrarsi in un quadro di pensiero composito, ma in sé compiuto e coerente, l’autore dell’intervento ricostruisce per noi l’asse noetico fondamentale: “Nell’era della tecnica, occorre una morale evidente  (corsivo del r.), non per far funzionare la società, ma perché l’uomo sia uomo. Questa identità o questa dignità umana è il dovere di ciascuno di noi. Essa implica, per l’individuo, l’obbligo di difendere se stesso contro ogni ingiustizia che gli venisse fatta. E questa difesa attiva, sempre pubblicamente visibile... rende manifesta la nostra solidarietà nella dignità."

 In altri termini, la coerente convergenza di senso fra lavoro intellettuale e prassi esistenziale qualifica innanzi tutto l'uomo, in quanto individualmente responsabile verso tutti gli altri dell'uso che avrà fatto della comune dignità umana. Quella dignità che nel filosofo (ma in qualche misura in ogni intellettuale che voglia distinguersi dalla categoria sempiterna dei clientes ) dovrebbe esprimersi con forza ancora maggiore, per la semplice ragione che più forte e più consapevole si suppone in lui l'imprescindibile esigenza dell'accordo tra ragione e coscienza.

 

 

 

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